LOGO Museo Garaventa Arancio

Nella storia bisecolare della Società Economica sono avvenuti tanti fatti che vanno ben oltre le coincidenze del caso. Questo sodalizio è cresciuto nel nome della cultura e con l’interesse per la novità.
In un ambiente ristretto e circoscritto, qual è stato Chiavari ed il comprensorio fra ottocento e prima metà del novecento, le idee sono miracolosamente circolate e con queste le iniziative “rivoluzionari” proprio nel campo dell’affermazione e della promozione culturale.
Il terreno era favorevole anche per gli artisti innamorati dell’ambiente con le sue luci ed i suoi colori.
Lorenzo Garaventa si è innamorato di questo pezzo incantato di Liguria e della Società Economica in particolare, che rappresentava una voce di libertà, di creatività, di cultura e questo artista era soprattutto uno spirito libero, di grandissima “conoscenza”, di travolgente capacità inventiva. E’ iniziato così un fortunato e solare connubio che ha portato tra le mura della Società opere di assoluta bellezza di questo artista.
Oggi il Museo Garaventa presso l’Economica raccoglie gessi, legni, terrecotte, marmi, bronzi, dipinti e ben duemila disegni che attendono di essere studiati ed esposti.


Dott. Giovanni Carosini

Il mondo dell’artista

Quando Matisse, di fronte ad un quadro con case cubiche, opera di Braque, inventò il nome “cubismo” nel 1908, Lorenzo Garaventa non era ancora nato.
Probabilmente si sarebbe inquietato, per quel nome che, come tutti i grandi nomi della storia dell’arte, era inizialmente irriverente nei riguardi di una novità mal compresa: gotico col significato di rozzo, barocco nel senso di sobrabbondante, impressionista nel senso di rappresentazione illusoria e parziale. Tutto quello che ci fa pensare, che ci fa uscire dai tranquilli binari del già acquisito, del noto, ci preoccupa. Cézanne, ad esempio, che de cubismo fu il precursore ed il profeta, conobbe la fama più grande, il culto più completo solo dopo la morte. Ma Braque, ma Picasso lo compresero subito e subito cercarono di carpirne i segreti. In realtà il cubismo era una risposta rigorosa all’angoscia destabilizzante del decadentismo; intendeva ridare all’arte quella solidità, quella stabilità che gli artisti, legati alla concretezza del pensiero, pensavano necessaria ad evitare che si potesse cadere, come molte volte si cadde, nella confusione disordinata ed emozionale. Attraverso le forme geometriche si tornava a ridare una realtà tridimensionale alla pittura, una forma precisa alla scultura.
Derain, il cubista che Garaventa amò di più, a questo rigore a volte freddo e un po’ cerebrale, aggiunse dei valori lirici desunti dall’arte del passato. Egli non pensava, come Picasso, che almeno per qualche tempo si dovesse “cracher sur Raphael”. Poteva pensare, come Appolinaire, che si dovesse per qualche tempo rifiutare il vero per creare un vero nuovo, che ci si dovesse staccare dalla tradizione per la creazione di una nuova bellezza.
Il verbo cubista trovò in Italia qualche difficoltà ad essere accettato perchè gli Italiani gli preferivano qullo futurista. Si trattava di spostare il nuovo dalla ricerca dell’oggi – cubismo – alla ricerca del domani.
Quando Garaventa si incontrò col cubismo, questo aveva trovato la strada per entrare in Italia, non nelle Accademie, dove la tradizione era ancora forte, ma nelle opere dei giovani artisti. Gli studi gli avevano dato un’ottima preparazione sul piano della tecnica. Il suo carattere lo aveva portato a sentire come suo mondo quello degli scultori tardo gotici come Arnolfo di Cambio e Tino da Camaino, per i quali la passionalità era sempre dominata dal rigore. Il cubismo, infine, gli forniva la possibilità di scoprire il nuovo senza cadere in un disordine rivoluzionario.
E poi c’era stata la guerra, la sofferenza della prigionia, lo scoprire il dolore che è il maestro più efficace delle creature umane. I modelli non erano più quelli dell’Accademia, ma i soldati morenti che aveva visto torcersi con le fattezze distrutte dalla pena, gli internati sui cui volti la fame tracciava ed evidenziava la struttura del cranio, lo scheletro appena nascosto dalla pelle. Dopo, se vogliamo, ci furono i fecondi dibattiti con gli altri artisti, la scoperta della grande arte europea nelle biennali. Cessata la guerra, intorno agli anni cinquanta, nascono lo “Studio per Cariatide”, il “Frammento ritmico”, il “Grande torso”, cioè quell’arte forte ed equilibrata che sarà poi sempre lo stile di Garaventa.
L’assoluta padronanza degli strumenti gli permette finezze quali si possono vedere nella tomba conti o in quella Lora, nel cimitero di Sori, in cui la sintesi raggiunge valori assoluti.
I temi del cubismo ritornano negli anni Sessanta con una rinnovata passione per Zadkine, per Brancusi, fino all’incontro, quasi di due destini alla ricerca di un dialogo, con Lipchitz. Garaventa si abbandona ora, nel pieno della fama e del successo, ai temi vagheggiati fin dai tempi della giovinezza, ma mai direttamente affrontati forse per paura, forse perchè fino ad allora aveva dovuto su di essi riflettere. Nascono quelle “metamorfosi” sui temi classici di Ovidio in cui la conoscenza perfetta dell’anatomia del corpo umano, la disperata coscienza del dolore senza fine si coniugano con l’equilibrio classico, col rigore cubista. L’arditezza dei suoi fauni, il grido al cielo delle sue Niobi, l’aspirazione a rendere visibili e vere perfino le nuvole (1971) dimostrano che il Maestro ha raggiunto l’acme della sua arte. Ed ad esso resterà fedele negli anni successivi, pur mantenendosi sempre, fino all’ultimo, sul terreno di una ricerca forse solamente, negli ultimi anni, più pacata, più fiduciosa.


Maria Grazia Pighetti Carbone 

I tempi e l’avventura umana di Lorenzo Garaventa

Le origini e la formazione

Quanto, il 10 settembre 1913, nasce a Genova, da Paolo Ugo Garaventa e da Carlotta Amelia Cavagna, Gaetano Luigi Lorenzo (ma dei tre nomi risulterà prescelto il terzo) madre e padre hanno già deciso di offrire al figlio le migliori opportunità di vita. Raccontava infatti la madre che, durante l’estate, nel periodo della villeggiatura, lei stessa e la fedele domestica si premuravano di fasciare le ginocchia del vivacissimo ragazzino con bendaggi in modo da esser certi che il padre, quando al sabato fosse arrivato, potesse trovarle indenni da graffiature e lividi che ne avrebbero gravemente turbato l’umore.
Paolo Ugo Garaventa, impiegato all’Eridania, era nato da una famiglia che aveva dato i natali a don Lorenzo Garaventa, originario di Calcinara, un piccolo borgo sulla strada tra Recco ed Uscio, in cui era nato nel 1724. dopo gli studi nel Collegio dei Gesuiti di Genova, sito in via Balbi, nel palazzo che ospita oggi l’Università, don Garaventa aveva dato inizio nel 1757 alla sua “scuola di carità”, cui avrebbe dedicato negli anni successivi, oltre alla sua opera, tutti i suoi pochi beni. La scuola ebbe il sostegno finanziario e l’appoggio dell’abate Paolo Gerolamo Franzoni, fondatore della biblioteca Franzoniana, e dell’arcivescovo di Genova Giovanni Maria Saporiti.
Grazie a questa iniziativa vennero fondate in città altre scuole gratuite gestite da sacerdoti che dal Garaventa avevano acquisito la convinzione che anche i più poveri, se desiderosi di apprendere, potessero e dovessero essere aiutati. Lorenzo Garaventa morì, poverissimo, nel 1783 ed ebbe sepoltura in Santo Stefano.
Ancora un nipote di don Lorenzo, Nicolò, professore di matematica al Liceo D’Oria, riprese l’opera dell’abate creando per i ragazzi di strada, i “batusi”, numerosissimi per la generale miseria, quella “Scuola di redenzione” fondata il 1° dicembre 1883 grazie alla quale furono avviati al lavoro ed ad una vita onesta migliaia di ragazzi che, a seconda delle capacità, poterono in qualche caso giungere alla laurea ed a posti di alta responsabilità. La sua opera fu continuata dal figlio Domingo e da altri insigni personaggi sensibili alla necessità di dare una formazione anche ai diseredati. Tempi mutati ed una diversa visione della vita conclusero l’opera durata, peraltro, quasi un secolo.
Se dalla famiglia paterna il giovane Lorenzo ereditò quell’attenzione ai giovani, quell’attitudine all’insegnamento che fecero di lui un maestro amatissimo sia al Liceo artistico Barabino, sia all’Accademia Ligustica di Belle Arti, l’interesse prima, la passione poi per l’arte li acquisì dalla madre, che in gioventù si era esercitata nella pittura seppure in maniera tradizionale e che amava tanto la poesia da aver voluta far dono al figlio di una minuscola edizione della “Commedia” dantesca che era costantemente tenuta in tasca e consultata come un libro sacro in ogni occasione di incertezza e di dubbio.
Già a nove anni gli attenti genitori lo affidarono al pittore Antonio Orazio Quinzio, insegnante di pittura all’Accademia, come il fratello Tullio Salvatore. Da lui apprese, e mantenne per tutta la vita, la profonda convinzione che il disegno è, in arte, fondamentale.
Iniziati gli studi classici contemporaneamente prendeva lezione di musica presso il Conservatorio Nicolò Paganini di Genova. Anche questa passione, questo coltivato interesse mantenne per tutta la vita. Chi ebbe la fortuna di frequentare il suo studio, come amico o come discepolo, ricorda che il suo lavoro era sovente svolto con accompagnamento musicale. Su una radiolina, infatti, lo scultore cercava, di programma in programma, i concerti di musica classica.
Questa educazione completa ed ad ampio raggio, ma forse ancora un po’ tradizionale, che lasciava Lorenzo Garaventa incerto sulle molte prospettive possibili, sarebbe forse durata a lungo se non ci fosse stato, nel 1929, a sedici anni, l’incontro con lo scultore Eugenio Baroni. Fu allora che gli fu chiaro che la sua vita era la scultura al cui servizio avrebbe potuto mettere le molte conoscenze acquisite in altri campi.
Si iscrisse quindi all’Accademia Ligustica di Belle Arti seguendo il corso di scultura del maestro Lorenzo Massa. Questi, come già il Quinzio, era un buon insegnante, ma tradizionalista, ma accademico ed il giovane Lorenzo era alla ricerca di qualche cosa di più nuovo, di più suo. È allora che scopre Augusto Derain, forse incontrato su qualche rivista d’arte quali quelle che si potevano consultare alla Società di Letture e Conversazioni Scientifiche, un sodalizio in cui si trovavano gli intellettuali della Genova un po’ frondista e molto innovativa. Il cubismo di Derain, che mantiene al suo interno il gusto, la consapevolezza della cultura arcaica, affascina il giovane scultore che, nel 1932, a diciannove anni, espone ad “Alere flammam” un’opera che colpisce l’attenzione del critico Attilio Podestà, che da allora lo seguirà dandogli utili consigli, ma anche frenando la sua inclinazione ad avventure troppo ardite, troppo innovative

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